L’estate dentro il lago

COSA: il mio lago
DOVE: 39°58′05″N 8°26′08″

Di quando l’Omodeo era rimasto senza acqua.

Avevo sette anni l’estate che il sole si era bevuto il lago. 
Passavamo i pomeriggi con le tapparelle abbassate, ma mai del tutto: il muro si riempiva di lucine ovali, schiacciate, intervallate da un’ombra così calda che nemmeno il ventilatore alla massima potenza riusciva a darle una parvenza di significato.
E la sera, tra cicale impazzite e gelsomino nell’aria, salivamo sulla Cinquecento bianca del ’64, detta Celestina, per entrare nella pancia di quella pozza rimasta senza acqua. Era lo spazio del mio lago, l’Omodeo, quasi al centro della mia terra, la Sardegna. 
Il tettuccio era liso, a tratti quasi trasparente: Celestina dormiva all’aperto e notti di nebbia più raggi bollenti lo avevano consumato.
Nel curvone all’uscita dal paese iniziavano i primi tentativi di evasione: a ogni viaggio alla conquista del lago che non c’era più, sgusciavo fuori dal sedile posteriore, per emergere col collo dall’abitacolo e sentire l’aria appiccicarsi alla faccia assieme ai capelli lisci, anzi dritti, che diventavano un groviglio di nodi. Le mie fughe verso l’alto, oltre la capote, venivano quasi sempre bloccate da una minaccia dolce, costruita su misura per me da papà-Nic e mamma-Fina, innamorati veri dei giri in macchina: “Stai seduta o torniamo subito a casa!”.

Quella bella stagione era fatta di affioramenti. 
Abbandonata l’idea di un on the road con la testa al vento, appiccicavo il naso al finestrino e mi perdevo nell’intermittenza di verde secco e ocra spento. Solo raramente mi abbagliava il luccichio della poca acqua rimasta: era come riprendere fiato dopo una corsa all’impazzata, dove non vinceva nessuno. Non c’erano medaglie per fare da spettatori alla siccità più crudele che nonna Caterina ricordasse.
Però c’erano altri premi per me, bambina isolana con una chiona giapponese , che conoscevo ancora poco il mondo. Ogni uscita era un gioco nuovo da provare in quel lunapark di luce e silenzio: un lago senza acqua.

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Il primo incontro l’avevo fatto con gli alberi pietrificati: mi sentivo una specie di Alice, caduta sotto terra. 
Avevo bisogno di tempo per capire come fosse possibile scalare, abbracciare e stare seduti su quei rami giganti come grattacieli che sbucavano dalla distesa di sabbia secca e ruvida. Le crepe del terreno ricordavano la pelle di una biscia pronta a cambiare manto: non era un paesaggio che sarebbe durato, lo capivo pure io, piccola com’ero.

La meglio gioventù del paese adorava quello scenario quasi ipnotizzante: era come se la valle si fosse rimpicciolita senza controllo, nascondendo il lago chissà dove e infeltrendo erbe, prati e qualunque germoglio nato da quelle parti. E i ragazzini, appena potevano, correvano a farsi travolgere dalla foresta ammaliante: montavano su vecchie bmx tutte ruggine e infanzia, qualche privilegiato ci arrivava col Si-Piaggio, su una ruota. Ricordo una sera, avevamo parcheggiato nella strada costiera e io, dall’alto, ero completamente travolta dalla scena: un collage in movimento che mi faceva sorridere ma mi bloccava anche il fiato. Gli arbusti grandi cinquanta volte più di me, biciclette e motorini buttati sulla polvere giallastra che si era rubata l’acqua e una banda di adolescenti in canotta e infradito appesi come palle su un albero di Natale.

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La volta che abbiamo camminato fino a “Boele” c’erano scirocco e nuvole rosa. 
Boele è dove si battezzavano le barche quando io nemmeno esistevo. E quando l’Omodeo era giovane. Nato negli anni Venti, lui non era figlio della natura, ma del progresso.
Era un giorno di settembre, ancora troppo presto per rivedere la grande culla riempirsi di acqua dolce: l’arsura della terra in quel tratto era più tenue, un alternarsi di mollezza e ruvidità. La melma giallognola dell’ansa nascosta, perché Boele stava sul bordo di una curva lieve, all’improvviso veniva ingoiata dalle strisce celesti accecanti: quei fili d’acqua erano la speranza di ciò che sarebbe tornato a essere quel posto, un lago.
Rincorrevo libellule che si spostavano da una pozza all’altra come in trance psichedelica, che a pensarci trent’anni dopo, uno se lo chiede cosa rendesse quell’angolo così stupefacente.
Superato il tornante più morbido, dal basso spuntava un camposanto di barche: era un’anatomia difficile da decifrare, come i pezzi minuscoli di un puzzle mischiati alla sabbia, in un secchiello. I bastoni senza coda dovevano essere remi, al resto era impossibile dare un nome, non solo per me, settenne ignara della vita lacustre più dura, ma anche per i pescatori più abili dell’Omodeo. Eppure non era un cimitero triste, anzi sembrava che in assenza di acqua quei resti riprendessero vita.

Un tempo là sotto c’era una chiesa, con la statua di una Madonna tutta legno e occhi, che proteggeva dal buio dei temporali chiunque salisse su un’imbarcazione: l’ho imparato solo da grande, anni dopo. Ora restavano il basalto di un altare senza fiori, la fede primitiva che mai aveva abbandonato quell’ansa e un vortice mistico che avvolgeva persino poppe e prue, un tempo benedette con l’acqua santa. Una specie di aqua dream, ma senza strass e paillettes.

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Qualche volta, nei nostri giri, ci spingevamo sino alla diga. 
Era un giro di giostra: salite, discese, scossoni, frenate, guizzi, oscillazioni, batticuore. 
La provinciale infatti era sempre deserta e in alcuni tratti potevo proiettarmi verso il cielo senza censure. Anzi, il mio desiderio che pian piano si concretizzava eccitava tutti: ci lanciavamo in una ola da gol dell’ultimo minuto, oltre la fessura aperta sopra di noi.
Prima di arrivare a destinazione compivamo una specie di rito familiare: ogni piazzola di sosta era nostra. 
Nic ruotava con una pazienza millimetrica la manopola dell’autoradio per trovare una vecchia stazione locale che trasmetteva solo musica italiana. Fina scendeva dalla macchina, si poggiava sul cofano anteriore e fotografava con lo sguardo quel che restava del fiume.
Io raggiungevo l’apice del godimento, esaudendo del tutto il sogno lasciato a metà: dalla pancia in su fuori dal tettuccio. Non mi importava se le raffiche non mi deformavano guance e bocca: anche da ferma per me era una grande conquista.
Poi ripartivamo, sino a trovarci davanti a una centrale idroelettrica che emergeva dall’acqua. Ma era invisibile: si vedevano solo archi, contrafforti e colate di trachite. Fili e turbine erano rinchiusi nel grembo della diga. 
Era l’estate più calda degli ultimi cinquanta anni, così dicevano i tg, eppure quando camminavamo sul giardino del custode, a fianco alla diga, le chiome della riva opposta si inclinavano. Fresche.
I tempi stavano per cambiare.

I tempi sono cambiati. Molto.
Non ho più sette anni. La diga vecchia è stata fatta fuori dalla diga nuova. Il lago si gonfia e si sgonfia, ma mai più come quella volta.
Ora che è inverno dall’acqua spuntano mezzi archi, tracce di archeologia industriale e quel che resta del tetto della casa del custode.
Le luci del luna park si sono spente, eppure le gite laggiù sono ancora elettrizzanti, di un’euforia genuina.
Il fruscio di un maestrale affilato si confonde con la melodia di “Bellamore”.

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Il paesaggio liquido si insinua dappertutto: nel lago galleggiano cavi d’acciaio e diapositive di un’estate vibrante.
Sto pensando di provare a rimettere in moto Celestina.
Un altro viaggio nella tana del Bianconiglio non sarebbe male.

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