23 ORE: tra Logudoro e dintorni
DOVE: 40°37’27″N 8°48’37″E + 40°38’40″N 8°53’33″E + 40°42’45″N 9°02’53″E
di trachite sacra, rettilinei infuocati e fedeli per sempre
Sono sempre le persone che ti restano dentro, in fondo. Alla fine di una vita, alla fine di una storia, alla fine di un viaggio. Anche quando il viaggio è lungo appena un centinaio di chilometri.
E questo è un viaggio tra promontori che dominano vallate e pianure ingiallite da scirocco e sole. Tra distese d’acqua che resistono alla potenza di agosto e, quasi un miracolo, accendono il verde che resta nei loro orli. Decidiamo di conoscerne da vicino tre, di questi quasi-colli del Logudoro. In 23 ore il giro potrebbe allargarsi di molto: ma attorno e nel cuore di queste piccole alture ci sono facce, terre e secoli da assorbire con tutta la lentezza possibile. Sopra ci sono chiese romaniche nate quando l’isola era una terra di giudicati. A volte crollate, poi aggiustate ma comunque sopravvissute. Sino ad oggi.
Polvere appassita e pietre incastrate in ex cattedrali e cappelle sono strade e arrivi perfetti in mezzo a tonalità pastello. L’isola intanto pullula di natanti e nuotatori che lil mare se lo godono con fatica. È più facile godersi quegli involucri di riti ripetuti mille e mille volte sotto un velo sacro e eroico insieme. E i loro custodi.

Il nipote di Giovannangela sorveglia una ex cappella palatina che appena la conosci ti stordisce un po’, come una stretta di mano esagerata. Ma dopo il primo sguardo ti avvolge con un’eleganza discreta: lo capisci piano che quella trachite ferrosa, così scura fa quasi paura solo se non ti fermi da lei. Se invece ti trattieni e scopri cosa c’è oltre quelle mura quasi nere, ritrovi un tepore insolito, che abbaglia. È un equilibrio assoluto che non ha bisogno di piccole misure per stabilirsi: la classe sobria e quasi fredda del fuori si amalgama all’oro sfavillante del retablo, dentro. Si entra quasi in punta di piedi e si esce con la tentazione di saltare a mezz’aria, per volerne liberare un po’ di quella meraviglia inglobata nella chiesa di Santa Maria del Regno, ad Ardara. Lui, il nipote di Giovannangela, svela segreti innocenti che non ha visto con gli occhi, ma assorbito dopo racconti sensazionali. Ci dice di mancanze inspiegabili, di consuetudini impigliate in ognuno di quei lastroni e di paure estreme. È proprio la statua di Santa Maria, che si teme. “Lei non viene portata in processione, Lei non esce mai dalla chiesa, Lei deve stare qui, sempre”. Se lascia la sua casa, porta dolore e amarezze. E ci confida di disgrazie passate, prova concreta della fondatezza di quei timori, quasi le avesse vissute in prima persona. Ma sono bisbigli di nonna Giovannangela: lei c’era davvero, allora.
Respiriamo ancora quello stupore surreale, trattenendocelo tra le costole il più possibile e poggiamo ancora una volta lo sguardo sull’altare. Lì l’ultima giudicessa di Torres, Adelasia, aveva promesso amore eterno a un giovanissimo marito che poco dopo l’aveva abbandonata.


Andiamo via. Scendiamo in pianura e poi saliamo di nuovo.
Ora è come essere ingoiati nella pancia del vecchio West, ma in alto non c’è un fortino solitario. C’è una ex cattedrale. Tutto attorno distese infinite di terra senape, alberi brulli, campi secchi. E poi lei, la basilica di Sant’Antioco di Bisarcio. La sua storia è fatta di maestranze pisane ma anche francesi, di costruzioni che si rincorrono nel tempo, di vescovi della diocesi di Bisarchium. È nel mezzo della campagna, che a vederla anche dal basso sblocca sensazioni che uno manco sa di poter provare. E una volta su è il portico, che non ti aspetti, a parlarti di conoscenza e maestosità, di incroci di popoli e materiali. È una storia fatta di frasi semplici che arrivano dritte alle orecchie, in mezzo ai belati estivi di un gregge che poco lontano ci prova a cercare l’ombra, ma non ci riesce. E in mezzo a suoni acuti, quasi striduli che sembrano arrivare da una vecchia radio: Morricone avrebbe composto altre magie, lassù.
La trachite rossa ospita luci e ombre mai uguali. Un campanile crollato, una facciata movimentata, con un’asimmetrica che incanta.
La custode, che in realtà è più che una custode, è una donna di quasi mezza età. Parla poco, dosando con dolcezza le parole. Aspetta domande che non arrivano: anche qui un incanto potente ci assale. Ma è l’esatto contrario di Ardara. Gira le chiavi come se stesse aprendo la scatola dei miracoli: ruota piano, e ci presenta una chiesa grande, semplice, composta. In fondo la statua di sant’Antioco. È un minimalismo da vedere.
“È la chiesa dei matrimoni: in tanti vogliono sposarsi qui”.
Quella guida, una delle tante, di sant’Antioco di Bisarcio è lì per trasferire pezzi di storia, di architettura, di cultura. E ci riesce davvero bene. Ma è lì anche per rendere eterni attimi che ancora non esistono. Come se un’unione a vita si potesse programmare in sette minuti, su un promontorio al nord dell’isola, ammaliati da pietra vulcanica color pelle e da una voce che lo ripete senza stancare mai, che quella è la chiesa giusta per il Si, lo voglio.


Lasciamo quel posto con le vene piene di una natura vuota ma potente. E di una linfa lieve che sa d’amore per l’isola.
Giù dal colle ci ritroviamo a percorrere chilometri di rettilinei, la strada verso l’estate. Indicazioni frammentate, pendenze più o meno accennate, asfalto opaco per distanze incandescenti. Magliette appiccicate alla schiena, labbra screpolate da aria secca e silenzio in mezzo a tutto.

Ci aspetta l’ultima chiesa della giornata. Andiamo da Mario. Lui è figlio di Nostra Signora di Castro. Un’altra ex cattedrale che in un miscuglio perfetto di altezze varie, si fa guardare dalle acque dolci del Coghinas e da una terra tutta rughe e vita. Rosa caldo, mattone opaco e grigio cenere sono il pattern di Mario. Viso liscio, occhi tondi, movimenti meccanici. I suoi anni sono nascosti da un modo di esistere che sfiora la normalità. Ci accoglie fiero di essere il custode di un luogo che gli si è conficcato tra sterno e dorso.
Perché il suo senso di protezione per quella chiesa l’ha ereditato da una madre e un padre che hanno scelto proprio quel posto, per metterlo al mondo.
Perché quando il vecchio olmo del piazzale ferito da un fulmine devastante stava per essere fatto a pezzi, lui lo ha salvato.
Perché quelle cumbessias, perimetro di fede e natura, per lui sono pezzi di vita.
Segue lo stesso copione giorno dopo giorno. Lo ha imparato senza prove e lo ripete con un’ingenuità bella, da bambino. Ci porta dentro quella piccola navata, sfiorandoci con colpetti di mano veloci, mentre parla. Apre la cassa di legno che contiene una Vergine, come se stesse stappando un amarone. Racconta di feste, di ricostruzioni, di persone, con le pupille trasparenti.
La sua è una grammatica di refusi, una umanità di cuore.
“Tornate un’altra volta” urla, mentre andiamo via.


La mattina dopo abbandoniamo il romanico. Ci perdiamo a Tula e scopriamo un muro di Andrea: la street art improvvisa fa sempre ritrovare la via di casa.
E prima di andare immergiamo lo sguardo, che si stava abituando a polvere e pietre, nel celeste del lago.


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